La variabile del tempo in questo periodo storico, più che in altri passati, condiziona in modo inequivocabile la qualità della vita. Avere del tempo libero, nell’accezione dell’otium degli antichi, quindi non impegnato da qualche svago, ma semplicemente a disposizione del non fare per lasciare spazio a noi, a quello che scorre dentro di noi e al nostro io che possa emergere, sembra non esistere più. La vita è scandita dal fare, dal nostro bisogno continuo di inserire appuntamenti, commissioni, serate, incontri, acquisti, mode del momento. Tutte queste cose concrete che riempiono le nostre giornate offrono ciascuna qualcosa di buono, talvolta hanno un risvolto positivo sul nostro umore, altre volte ci sembrano occasioni da non perdere, altre ancora rappresentano qualcosa di effimero ed evanescente che ci fa sentire bene, ma poi tutto svanisce come in una bolla di sapone. Questo folle turbinio di cose da fare talvolta lo ricerchiamo attivamente, altre ne siamo intrappolati senza esserne consapevoli, ma sempre così ben organizzati da riuscire a fare stare tantissime cose. Peccato che tra tanto “fare” ci si perda: resta fuori la persona, il contatto con se stessa, con quello che le capita dentro, che si muove, che racconta ciò che sente. Ci sono poi situazioni, periodi o modi di stare al mondo che per definizione cercano attivamente questo comportamento, il riempirsi la vita e la testa di “fare” e di “cose”, o per colmare la sensazione di vuoto e il sentirsi smarriti, o per annullare la possibilità di percepire cosa accade dentro, troppo spaventati dal contatto con una “pancia” emotiva, ben nascosta e archiviata nelle profondità, al fine di evitarne una fuoriuscita. In questo caso si tratta di una emotività congelata, cristallizzata e intoccabile. La paura che qualcosa possa emergere è molto alta, a tal punto che i meccanismi di difesa lavorano al fine di mantenere un equilibrio psichico nel quale portare avanti la propria esistenza, anche se perdendo il contatto con se stessi.
Purtroppo però questa condizione, o scelta di vita, a lungo andare, lungi dall’essere gratificante, ci lascia svuotati e in balia di un senso di inquietudine e di insoddisfazione.
L’immagine simbolica più frequente in questi casi è quella dell’iceberg, non solo in relazione a quanto è congelato nel profondo dell’animo umano, ma anche a rappresentare la proporzione tra quanto appare al di sopra del pelo dell’acqua, visibile alla coscienza, e quanto invece resta sommerso e inaccessibile. Se desideriamo esprimere al massimo il nostro potenziale, prenderci cura di quella parte nascosta, sofferente e congelata, urge affrontare quello che stiamo tenendo celato. Affrontare il sommerso, e quindi l’inconscio, è un percorso, un cammino che richiede dedizione, tenacia, pazienza e desiderio, ed insieme anche la guida di un terapeuta capace di sostenere la persona nelle difficoltà, nelle paure, negli intoppi, negli imprevisti e nelle strade chiuse che si incontreranno lungo il cammino.
Dovremmo allora, reimparare ad utilizzare la capacità di conservare un tempo vuoto, un vuoto positivo e costruttivo, promotore di un ascolto di noi stessi e del nostro vero sentire, quel sentire che può dare direzione alle nostre scelte, così da valorizzare il tempo attraverso la qualità di ciò che decidiamo sia prezioso per noi. Solo se impariamo ad ascoltare quello che abbiamo dentro, il modo in cui ci sentiamo in quel dato momento, potremo valutare con attenzione, e in modo del tutto personale, l’infinita possibilità che si dischiude attorno a noi. La sensibilità di ascoltare il proprio io va allenata e, talvolta persino recuperata, in quanto non è semplice riuscire a far tacere gli stimoli che costantemente ci colpiscono e ci attraggono deviando i nostri istinti interni.
La psicoterapia individuale è un percorso di ricerca di se, e uno spazio e un tempo fermo, libero da pressioni esterne, per riappropriarsi di se stessi, per reindirizzare il nostro ascolto empatico prima di tutto a sentire cosa batte dentro il petto, cosa si muove nello stomaco, cosa risale e ribolle e desidera attenzione e primo piano.
Manuela Montalto